Negli ultimi anni l’Europa ha iniziato a riconsiderare in modo molto concreto il tema dell' ’“emergency food”, cioè di quei cibi a lunghissima conservazione pensati per garantire autonomia in situazioni di crisi.
La spinta non nasce più soltanto da ambienti legati all’alpinismo o ai survivalisti, ma da un contesto geopolitico instabile, segnato dalla guerra in Ucraina, dalle minacce ibride, dalla crisi energetica e dal ricordo ancora vivo della pandemia.
Il cambio di passo è stato ufficializzato quando, il 26 marzo 2025, la Commissione europea ha invitato formalmente tutte le famiglie del continente a essere in grado di sostenersi autonomamente per almeno 72 ore con scorte di acqua, alimenti e beni essenziali, raccomandazione riportata da Reuters, Guardian e Associated Press.
È un segnale politico che trasforma la preparazione domestica da abitudine marginale a forma di responsabilità civile. Questo shift culturale non è un’astrazione: Paesi del Nord Europa avevano già avviato da anni strategie simili. In Svezia, l’agenzia nazionale MSB ha distribuito nelle case la brochure ufficiale “In case of crisis or war”, che spiega nel dettaglio quali scorte alimentari tenere, come gestire acqua e illuminazione, e come comunicare in caso di blackout prolungato. In Norvegia, nel 2024 è stato ripristinato un programma di scorte strategiche di grano, con l’obiettivo di arrivare a oltre 80mila tonnellate stoccate entro i prossimi anni, iniziativa riportata da media locali e internazionali . In Germania, già nelle prime settimane dell’invasione russa del 2022 si registrarono acquisti anomali di generi non deperibili e persino razionamenti temporanei di alimenti come l’olio di semi, episodi ampiamente documentati dalla stampa.
Parallelamente, i rapporti di ricerca sul settore indicano un incremento strutturale della domanda europea di liofilizzati e prodotti a lunga conservazione, con previsioni di crescita costante fino al 2030 e oltre, un dato che proviene da analisi di mercato e non da enti pubblici ma che evidenzia una tendenza chiara.
L’Italia si muove in questo scenario con una sensibilità peculiare. Storicamente, nel nostro Paese la gestione delle emergenze è stata delegata alla Protezione Civile, e l’idea di preparare scorte domestiche non ha mai avuto una narrazione forte come nei paesi nordici. Tuttavia, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina nel 2022, l’onda emotiva arrivò anche da noi: Federfarma dovette intervenire pubblicamente invitando a non acquistare iodio preventivo, dopo l’aumento improvviso della domanda motivato da timori nucleari.
Questo episodio, insieme a successive discussioni sui possibili blackout energetici, ha rappresentato una vera crepa nella percezione italiana di invulnerabilità. A livello commerciale, oggi i negozi outdoor e piattaforme e-commerce operanti in Italia vendono pasti liofilizzati, barrette ipercaloriche e kit “72 ore” strutturati, mentre catene come Decathlon hanno ampliato la loro gamma, rendendo prodotti prima di nicchia facilmente accessibili anche a chi non frequenta la montagna.
In parallelo, la Protezione Civile ha continuato a promuovere campagne come “Io non rischio”, che includono indicazioni sulle scorte alimentari minime da tenere a casa, segno che il concetto di autonomia temporanea sta entrando gradualmente nel discorso pubblico. Comprendere che cosa rientra nel perimetro dell’emergency food aiuta a cogliere l’evoluzione in corso.
I pasti liofilizzati, privati dell’acqua tramite processo di sublimazione, garantiscono leggerezza e durata fino a circa cinque anni. Le razioni compatte come le BP-5, ideate in Scandinavia e utilizzate anche in missioni umanitarie, sono progettate per fornire molte calorie in poco spazio e si conservano fino a cinque anni.
A queste si aggiungono le conserve tradizionali: secondo dati USDA, prodotti in scatola come legumi, tonno e carne possono rimanere sicuri per anni se correttamente conservati, con differenze legate all’acidità degli alimenti. Non è un’invenzione moderna: l’Europa conosce da secoli i cibi “da crisi”.
Il duro pane navale hardtack, durissimo ma praticamente eterno se asciutto, nutriva marinai e soldati già nel Settecento , mentre la tecnologia delle buste a trattamento termico (retort pouch) ha rivoluzionato le razioni militari permettendo pasti pronti a lunga durata senza refrigerazione . In Italia, la memoria dell’autarchia e dei surrogati della Seconda Guerra Mondiale dal caffè d’orzo alla “carne sintetica” testimonia come la scarsità alimentare possa modellare rapidamente dieta e cultura.
Oggi, il consumatore italiano che si interessa all’emergency food non lo fa per paranoia ma per realismo: dopo pandemia, tensioni geopolitiche e alluvioni ripetute, la vulnerabilità dei sistemi appare più evidente. In pratica, una dispensa ragionata include acqua, conserve, liofilizzati, razioni compatte e strumenti minimi come fornello e apriscatole, seguendo la logica FIFO per evitare sprechi.
Non esistono ancora dati ufficiali che quantifichino con precisione quanto dell’incremento nelle vendite sia guidato direttamente dalla paura di crisi geopolitiche, ma l’insieme di segnali indicazioni UE, scorte nazionali in altri Paesi, crescita del settore, maggiore disponibilità nei negozi italiani e cambiamento culturale descrive una tendenza reale e misurabile. L’emergency food non è più accessorio per pochi, e in Italia si sta trasformando lentamente da curiosità in abitudine prudente. Se ieri la sicurezza era data per scontata, oggi l’autonomia alimentare di breve periodo viene percepita come una competenza di cittadinanza moderna: una forma di maturità civile, non di allarmismo.
In un continente che ha riscoperto la fragilità della pace e delle catene logistiche, qualche busta liofilizzata e una scorta intelligente di cibo non sono il simbolo di un mondo che crolla, ma il segno di una società che ha deciso di non farsi trovare impreparata.