La battaglia di Pavia del 1525 e il predominio sull'Italia

Scritto il 22/02/2025
da Marco Patricelli

AGI - Vinsero gli austro-spagnoli, persero i francesi, ma c'erano italiani in ambedue gli schieramenti, che combatterono per Franza o Spagna. Cinquecento anni fa, a Pavia, si svolse una delle battaglie più significative e importanti dell'era moderna, che vide opposti l'imperatore Carlo V d'Asburgo e il re Francesco I di Valois-Angoulême. Il 25 febbraio 1525 si infrangeva il sogno di predominio francese in Italia.

Per la prima volta appariva documentalmente nella storia il toponimo di una città che sarebbe nata solo nel 1927 grazie a Gabriele d'Annunzio, Pescara, grazie a Fernando Francesco (Ferrante) d'Avalos che nel blasone portava il marchesato di un luogo in cui non si sarebbe mai recato. Ma aveva adottato quel nome, tant'è che alla storia ci passerà come “Il Pescara”. Fu lui, comandante in capo dell'esercito imperiale, a conquistare l'alloro della vittoria del Sacro Romano Impero, con la mossa decisiva che annientò la cavalleria francese e scompaginò le truppe nemiche, prendendo pure prigioniero il re di Francia. 

Gli italiani schierati su ambedue i fronti 

Nei pressi di Pavia si fronteggiavano circa 45.000 fanti e 5.500 cavalieri pesanti e leggeri, spagnoli, tedeschi, francesi, italiani, svizzeri, con una settantina di pezzi di artiglieria, mentre la città era presidiata da una guarnigione imperiale di seimila uomini.

Sotto le bandiere di Carlo V militavano alcuni Gonzaga, Castellalto, Fanfulla da Lodi, Medici, Marchi, Arcimboldi, Farnese, Hercolani, Castaldo, Orsini, Farnese, Piossasco, Martinengo, d'Avalos, Sforza, Malatesta; per la Francia erano schierati Saluzzo, Trivulzio, altri Gonzaga, Sanvitale, Acquaviva, Gambara, Barbiana. Mancava forse il più capace comandante italiano, il valoroso Giovanni de' Medici detto “dalle bande nere”, ferito da un colpo di archibugio in una scaramuccia il 18 febbraio.

In gioco c'era la supremazia sull'Italia, con una guerra iniziata nel 1521 (il primo esercito francese a scendere in Italia era stato quello di Carlo VIII nel 1494) che si concluderà solo nel 1526 con la pace di Madrid che sancirà la perdita per la Francia del regno di Napoli, del ducato di Milano e della Borgogna. 

Le armi da fuoco cancellano il mito dell'imbattibilità della cavalleria 

La battaglia di Pavia segnò uno spartiacque nel modo stesso di concepire e condurre la guerra, con la decadenza anche del mito della cavalleria pesante e la creazione dell'altro mito della fanteria come regina delle armi, e la crescita di importanza dell'artiglieria. Furono gli archibugieri e i picchieri a fare strame della nobiltà francese a cavallo. Stando alle fonti i caduti nelle fila francesi, tra morti e feriti, furono almeno 12.000, a fronte di circa 500 perdite tra gli imperiali, e questo grazie a un razionale utilizzo dei reparti specializzati nell'uso delle armi da fuoco. L'anno prima Francesco I si era ripreso Milano e le truppe imperiali si erano fortificate a Lodi.

Il re pensava che prendere Pavia, difesa da appena 5000 spagnoli e mille tedeschi agli ordini di Antonio de Leya, avrebbe inferto un colpo letale al demoralizzato e numericamente non irresistibile esercito del Sacro romano impero. Fidava nelle irresistibili cariche della sua cavalleria pesante e nella potenza di fuoco dei suoi 53 pezzi di artiglieria, e così il 27 ottobre aveva assediato la seconda città del ducato. A febbraio gli imperiali di stanza a Lodi si erano mossi verso Pavia agli ordini di Ferrante d'Avalos, Carlo di Lannoy e Carlo II di Borbone.

Tre settimane trascorrono nello studio reciproco, e il 23 scatta il primo attacco degli spagnoli che espugnano il castello di Mirabello e si schierano nel parco. I francesi, passato lo smarrimento della sorpresa, reagiscono investendo  i quadrati dei picchieri e dei lanzichenecchi col tiro devastante dei cannoni, mentre lo slancio degli spagnoli sembra essersi affievolito. E allora Francesco ritiene giunto il momento di lanciare al contrattacco la cavalleria, per sgominare quella avversaria e chiudere la partita. Compie però un errore, perché la carica avviene sulla linea di tiro delle artiglierie, che devono fermarsi. 

La mossa decisiva del marchese di Pescara Ferrante d'Avalos e la fine di La Palice 

Questo errore viene colto dal Pescara, abile ad accorgersi pure che la fin allora temutissima cavalleria pesante francese aveva perso il contatto con le truppe a piedi che la proteggevano. Invia quindi in una zona boscosa, che li proteggeva da una carica altrimenti non fronteggiabile, una forza di circa 1.500 archibugieri che martellano il fianco dei francesi falcidiandolo. D'Avalos dà poi l'ordine alla cavalleria leggera imperiale e alla fanteria di lanciarsi sugli appiedati e i feriti. Non c'è scampo per i francesi, uccisi col sistematico uso di armi bianche sulle parti scoperte delle armature e di quelle da fuoco a distanza ravvicinata. Questa fase decapita l'esercito di Francesco I dei principali comandanti e l'intera nobiltà francese dei suoi più importanti esponenti.

A Pavia cade anche il Maresciallo di Francia e viceré degli Abruzzi Jacques de La Palice, entrato nella storia e nella lingua per l'epitaffio dettato dai suoi uomini: «se non fosse morto sarebbe ancora invidiato. Lapalissiano, appunto. La Palice, impossibilitato a difendersi per il peso dell'armatura e per l'età (aveva 55 anni), era stato preso prigioniero dal capitano Castaldi, luogotenente di Ferrante d'Avalos, e ucciso successivamente a sangue freddo da un capitano spagnolo che ne pretendeva la consegna per estorcere il riscatto. 

«Tutto è perduto fuorché l'onore» 

Gli imperiali erano in leggera inferiorità numerica e in notevole inferiorità nelle artiglierie, ma l'innovazione nella condotta della battaglia aveva annullato il vantaggio nemico. Lo stesso re di Francia, che era comandante in capo anche sul campo, viene preso prigioniero, ma trattato con tutti i riguardi del suo rango. A una sua lettera alla madre Luisa di Savoia si deve la sintesi della sconfitta, anch'essa entrata nella storia: «Tutto è perduto, fuorché l'onore che è salvo». 

La morte del condottiero e la figura della moglie Vittoria Colonna 

Ferrante d'Avalos, napoletano di nascita ma spagnolo nell'animo, sopravviverà pochi mesi al successo che ne aveva fatto uno dei più grandi condottieri del ‘500, poiché morirà  a Milano il 5 dicembre del 1525. La moglie era la poetessa Vittoria Colonna. La marchesa di Pescara fu una delle donne più colte e affascinanti del Rinascimento, in rapporti artistici e letterari con Michelangelo Buonarroti (innamorato platonicamente di lei), Annibal Caro, Pietro Aretino, Ludovico Ariosto. Quest'ultimo la citò con ammirazione nell' “Orlando furioso” come esempio di virtù coniugali.