L'idea di Donald Trump è di fare cassa con i dazi per finanziare almeno in parte le ingenti spese del suo pacchetto di tagli fiscali. Secondo alcune stime che circolano in ambienti finanziari, che in ogni caso vanno prese con le pinze in virtù delle tante variabili in gioco, ipotizzano incassi per l'amministrazione Usa nell'ordine dei 380-450 miliardi di dollari l'anno a partire dal 2026 (l'amministrazione dice di poter incassare già 300 miliardi quest'anno). Il calcolo è tarato sul livello di tariffe in vigore o annunciate e tenendo conto di eventuali esenzioni su determinate categorie di beni. Inoltre, incorporano un conseguente calo dei volumi dei commerci nell'ordine del 20-30% a seguito dell'entrate in vigore delle tariffe sui 3.800 miliardi di import Usa a livello mondiale (606 miliardi dall'Europa nel 2024, merci sulle quali graverebbe l'annunciato 30%).
Il costo del Big Beautiful Bill di Trump è stato stimato dal Congressional Budget Office (il Cbo) in 3,4 mila miliardi in dieci anni tra minori entrate e spese. Si tratta di conti indipendenti, respinte dal segretario al Tesoro Scott Bessent, ma che comunque risultano conservative rispetto ad altre che arrivano a 5mila miliardi includendo i costi per gli interessi sul debito.
Sta di fatto che, prendendo un valore a metà strada tra la ridda di cifre, il costo annualizzato delle politiche fiscali espansive del Tycoon comprensivo di interessi dovrebbe essere nell'intorno dei 400 miliardi annui. Una cifra che potrebbe essere coperta in tutto o in parte dalle tasse sulle merci, almeno questo è l'azzardo del giocatore di poker Trump. Bessent è arrivato a dire che le stime di costo del Cbo incorporano una stima di crescita del Pil troppo prudente e che in presenza di un'espansione vicina al 3% annuo (tasso toccato durante la prima presidenza Trump) la misura si ripagherebbe in ragione delle maggiori entrate fiscali.
Tuttavia, la falla nel ragionamento dell'amministrazione Trump sta proprio qui. Infatti, è difficile immaginare tassi di crescita sostenuti in presenza di una contrazione marcata dei commerci e con tariffe che, peraltro, sono destinati a pesare in primo luogo sui consumatori americani: soprattutto per quanto riguarda l'interscambio con l'Europa, poi, ci sono categorie molto difficilmente sostituibili come quelle dei farmaci e che quindi andrebbero matematicamente a gravare sui cittadini americani in mancanza di esenzioni specifiche. Non a caso, infatti, la Federal Reserve (la banca centrale americana) teme un effetto inflattivo e va cauta sui tagli ai tassi d'interesse per questo precisa ragione.
L'effetto boomerang si andrebbe a ripercuotere anche sui fatturati delle imprese americane, che verrebbero immancabilmente colpite dai contro-dazi europei se le tariffe dovessero rimanere al 30% annunciato. La Commissione Ue, infatti, ha allo studio contromisure da 72 miliardi tra cui aerei, automobili e componentistica, macchinari e prodotti agricoli. Meno affari, si tramuterebbero aumaticamente in meno Pil e quindi meno entrate fiscali per l'amministrazione americana. Per non parlare dell'effetto sfiducia sul debito americano che già si tocca con mano: con i Treasury vicini a rendimenti del 4,5% e un dollaro che continua a perdere terreno rispetto all'euro e accarezza quota 1,17. Questo significa che gli Stati Uniti e il loro enorme debito sono considerati più rischiosi, per questo gli investitori chiedono rendimenti elevati per prestare i loro soldi.
Anche il processo di deglobalizzazione voluto da Trump, che punta a riportare la produzione delle merci negli Usa, è un processo troppo lungo che, qualora dovesse mai innescarsi, richiederebbe tempistiche lunghe e ingenti investimenti esteri che scaricherebbero a terra i loro effetti ben oltre il periodo di permanenza del Tycoon alla Casa Bianca. Nel frattempo, il presidente Usa potrebbe andare incontro a un calo dei consensi fatale. Ragione per cui le Borse (ieri Piazza Affari ha chiuso in positivo e non si è vista l'ombra di crolli a Wall Street) non credono ai proclami di Trump e puntano su un accordo ben più mite rispetto a quanto prospettato nella lettera inviata alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.