Varrebbe la pena ricordarlo laggiù a Sharm, proprio mentre Donald Trump fa il gran cerimoniere del vertice che, liberati gli ostaggi e fatte tacere le armi, sancisce l'inizio della seconda fase del suo piano che ha l'obiettivo di porre le basi per una pace vera. E la voce che dovrebbe rammentare a tutti e con vigore il concetto non può che essere quella europea, la più sensibile al momento ai valori di libertà e democrazia: per evitare che fra due anni o anche prima cominci un altro conflitto, per scongiurare un altro sette ottobre o un'altra carneficina a Gaza l'unico sbocco possibile è quello che assicuri ai due popoli, israeliano e palestinesi, due Stati, cioè una patria. Non si scappa da questa soluzione.
Si può promettere che Gaza diventi un'altra Saint Tropetz o che la Palestina si trasformi in un'altra Dubai, ma senza quell'approdo, quella speranza è fatale che tornino ad esplodere le contraddizioni, l'odio e il terrorismo. Potranno volerci 5, 10, 20 anni di protettorato internazionali o arabo, di consigli della Pace, di contingenti stranieri che garantiscano la sicurezza e la tregua, ma deve essere chiaro fin d'ora che l'unico l'epilogo prevede "due popoli e due Stati".
La ragione è semplice: Hamas - o qualunque soggetto che professi la dottrina per cui il popolo palestinese può liberarsi solo con la violenza - deve essere privato non solo delle armi, ma di quella che spaccia come missione o ragione sociale. Bisogna evitare che il terrorismo abbia l'alibi dell'obiettivo della "liberazione", per convertire all'odio una generazione che i lutti e le tragedie hanno reso terreno fertile per questa perversione.
E un ruolo del genere può averlo solo l'Europa perché Donal Trump ha avuto sicuramente un grande merito ad imporre la tregua, ma l'ipotesi dei "due popoli e due Stati" non fa parte dei suoi ideali, del suo orizzonte. Assertore di un pragmatismo coniugato quasi con il cinismo, incline ad accarezzare gli "autocrati" tradendo in alcuni casi anche un pizzico d'ammirazione il suo linguaggio si limita all'uso della "forza" militare ed economica. Per lui tutto si riduce agli affari. Non per nulla sul tema dei "due Stati" si limita a dire di non avere un'opinione precisa e nei 21 punti dell'accordo l'argomento è quasi esorcizzato per non dire rimosso. Solo che senza quel "sogno" l'intesa è già minata alla base.
Ecco perché tocca all'Europa farsi sentire. Alzare "la voce". Sarebbe stato meglio se i 27 Paesi lo avessero fatto tutti insieme, fin da subito, per avere più voce in capitolo senza dividersi tra chi voleva un riconoscimento immediato (Francia ed Inghilterra) e chi per realismo - o calcolo - lo rinviava ad un secondo momento (Germania e Italia). Ora, però, che la guerra è finita varrebbe la pena che l'Unione, o almeno i suoi Paesi fondatori, individuassero nei "due Stati" la loro proposta comune. Caratterizzassero il proprio ruolo - lo ha già fatto ieri Giorgia Meloni - nella seconda fase legando il loro nome a questo argomento. Troverebbero sicuramente spazio e influenza nel complicato scacchiere medio-orientale offrendo l'immagine liberale dell'Occidente che la dottrina basata sulla sola "forza" sposata da Trump e Netanyhau hanno in parte appannato. Ed in fondo è l'unico ruolo che può rendere il Vecchio Continente coerente con lo scontro ingaggiato con Putin in difesa dell'indipendenza dell'Ucraina. La libertà è un valore che vale a Sud come ad Oriente.