Paragoni. Molto bello cimentarsi. Soprattutto se riguardano i vincenti. Ma i paragoni si fanno a freddo, mai a caldo. Perché approssimazioni e sviste sono figlie della fretta ma anche dell'ultimo punto che emoziona o dell'istante del traguardo o della gioia per quel centesimo in meno o centimetro in più. Manca lucidità e poi la fretta è tifosa. Per collocare correttamente l'impresa di Jannik Sinner nella storia del nostro sport è invece giusto prendersi il tempo necessario per tornare freddi. Se si giudica nel momento è un attimo dire Sinner come Valentino Rossi nelle moto, come Alberto Tomba nello sci, Federica Pellegrini nel nuoto, come Gimbo Tamberi nel salto in alto, come Pietro Mennea nella corsa, come Nino Benvenuti nella boxe, come Fausto Coppi nel ciclismo... Tutti grandissimi per epica, numero di vittorie, imprese, costanza, ma è in qualcos'altro che sta l'enormità di quanto raggiunto da Sinner a Londra: sta nel momento che arriva inaspettato a dirci che la fantascienza è realtà, sta nell'incredulità che ci pizzica le guance e certifica che è tutto vero. L'incredulità dell'impossibile diventato possibile di un italiano re di Wimbledon. Proviamo a dirlo ad alta voce: un italiano ha vinto Wimbledon. Che effetto fa? Non provoca la stessa sensazione di quest'altra frase? Un italiano ha vinto l'oro nei 100 metri alle olimpiadi.
Sinner come Marcell Jacobs allora. Sì. Anche se poi Marcell ha mancato nella continuità. Perché prima di Tomba c'era stata la valanga azzurra, prima di Valentino le vittorie di Giacomo Agostini, prima di Federica Novella Calligaris e via così. In fondo, dentro il cuore, avevamo sempre saputo che in quelle discipline prima o poi un italiano o un'italiana ce l'avrebbero fatta. Questione di cicli. Però non ci eravamo permessi neppure di sognarlo un italiano re di Wimbledon o dei 100 metri. Ed è questo a fare la differenza.